CHE SUCCEDE IN MEDIO ORIENTE?

Uno dei motivi che ha acceso l’ennesima rivolta popolare palestinese è stata la decisione da parte dei tribunali israeliani di procedere con lo sfratto di alcune famiglie residenti nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata. Attraverso procedimenti illegittimi e unilaterali come questo, la politica colonialista israeliana non si è mai fermata. Fin dalla sua nascita l’appropriazione forzosa o la distruzione di case appartenenti ad abitanti autoctoni, l’accaparramento di terre, la costruzione di nuovi insediamenti per coloni, l’occupazione militare dei territori rappresentano alcuni fra i metodi con i quali Israele porta avanti il progetto sionista e il disegno di pulizia etnica della Palestina.

In politica estera, da qualche tempo a questa parte, la tattica di Israele appare chiara: presentarsi al mondo (e soprattutto all’occidente) come “unica democrazia” presente in medio oriente, al fine di consolidare e legittimare la propria esistenza. Sbandierando risultati incoraggianti sul terreno dei diritti civili, promuovendo campagne di pink-washing e rainbow-washing, ad esempio, ha costruito un’immagine positiva di sé agli occhi dell’occidentale medio. C’è da dire che su questo aspetto di marketing gli Stati Uniti, campioni nel “sapersi vendere”, hanno fatto scuola.

Si tratta di “narrazioni diversive” atte a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Tentativi maldestri di coprire i crimini che vengono perpetrati quotidianamente ai danni del popolo arabo-palestinese, già oppresso dall’Impero Ottomano tra l’800 e il ‘900, dai britannici durante il mandato di Palestina. Infine da Israele a partire dalla Nakba del 1948.

Un popolo abituato a resistere, quello palestinese. Ma costretto a vedere i propri diritti calpestati e annichiliti: dai più basilari diritti umani fino ai diritti civili e sociali. In uno stato di apartheid, come denunciato anche da Humans Rights Watch, questi vengono quotidianamente negati da un’apparato repressivo spropositato: leggi liberticide e tribunali militari; uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo; servizi di intelligence efficienti ed efficaci. A dimostrazione della totale asimmetria vi sono gli ultimi bollettini di guerra che raccontano, come sempre, di una situazione impari: mentre si paventa un’invasione via terra della striscia di Gaza, le bombe dell’aviazione israeliana hanno ucciso più di 119 persone, tra cui almeno 10 bambini; in Israele vi sono fortunatamente “solo” 7 vittime.

Date anche le sfavorevoli circostanze sovranazionali (che vedremo più avanti) i palestinesi hanno sempre meno spazio di manovra. La coraggiosa resistenza popolare, armata di pietre e fionde, non può nulla contro i blindati e i proiettili degli occupanti. Quella armata di fucile, portata avanti soprattutto dalla destra religiosa (Hamas in testa) nella prigione a cielo aperto della Striscia di Gaza, sembra aver trovato un’appoggio politico e materiale in Iran. Le forze laiche come al-Fatah e il Fronte Popolare di Liberazione Palestinese (FPLP, di ispirazione marxista), invece, paiono indebolite su tutti i fronti. L’Autorità Nazionale Palestinese, infine, è pressata dalle critiche e da più parti viene accusata di essere troppo “collaborativa” nei confronti dell’occupante sionista.

SCENARIO INTERNAZIONALE

Sullo sfondo la situazione internazionale è sempre più lontana dal favorire una soluzione che rispetti il diritto all’autonomia del popolo palestinese. Sullo scacchiere mediorientale si muovono infatti potenze imperialiste che non hanno alcun interesse nel difendere realmente la causa palestinese. Per ragioni diverse ma riconducibili a motivi di opportunismo politico, economico e strategico-militare, negli ultimi anni gli stati arabi hanno abbandonato la causa dei loro fratelli di Palestina. Lo dimostrano in maniera lampante due fatti: 1. Il riconoscimento ufficiale dello stato di Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein; 2. L’avvicinamento dell’Arabia Saudita (da sempre vicina ai palestinesi) a Israele in termini di relazioni politiche, diplomatiche, commerciali. Contenere il potente nemico comune, l’Iran (spalleggiato da Russia e Cina), è molto più importante del diritto all’esistenza dei palestinesi.

Per quanto riguarda i “padrini” protettori di Israele, ovvero gli USA, la decisione di ritirare le truppe dall’Afghanistan, dopo ben 20 anni di occupazione, è da leggere come un ulteriore segnale di disimpegno. Perché è importante sottolineare ciò? Due sono i motivi principali. Uno riguarda la sopravvivenza stessa di Israele: difficile che accada, ma nel caso in cui gli Stati Uniti (e l’Occidente in generale) abbandonino definitivamente il Medio Oriente, lo stato ebraico si troverebbe accerchiato da potenze più o meno ostili (Iran, Libano, Siria, Turchia, Egitto) che ne minaccerebbero la sopravvivenza. Insomma, se gli yankees levassero le tende avrebbe molto da perdere. Ed ecco che, forse, tenere alta la tensione con i palestinesi (e non solo) appare utile per fare in modo che gli Stati Uniti e gli alleati occidentali siano costretti a dimostrare la propria vicinanza a parole, come si è visto ad esempio alla manifestazione pro-Israele a Roma, e sul campo.

Il secondo motivo è che il venir meno (finalmente) dell’influenza a stelle e strisce causerà un vuoto di potere che verrà certamente riempito. Da chi? Da chi la spunterà nella lotta per assicurarsi una posizione di dominio nell’area. In campo ci sono potenze regionali rivali, come Turchia e Qatar da una parte e Arabia Saudita e Emirati, dall’altra. C’è l’Egitto, ultimamente più vicino a Israele ed anche alla Russia. Ci sono i nemici giurati di sempre, Israele e Iran; ma anche Arabia Saudita e Iran. In questo scenario così rovente, lo strumento della guerra è e sarà un’opzione sempre sul tavolo.

La situazione in Yemen lo dimostra ed è un esempio che riflette le tensioni esistenti. Il paese è sconvolto da un conflitto civile ancora in corso, alimentato anche da bombe made in Italy, in cui si scontrano da una parte la coalizione guidata dall’Arabia Saudita (con il sostegno di paesi occidentali come Regno Unito e Francia) e dall’altra l’Iran, che finanzia i gruppi ribelli che vogliono abbattere il governo yemenita. Una guerra per procura di cui non si parla abbastanza: ha causato finora 16 mila morti e almeno 3 milioni di sfollati tra i civili.

Un paesaggio atroce e complicato, che appare come un’eterna “Guernica”. A farne le spese infatti, come al solito, sono le classi popolari, i cui reali interessi e bisogni (pace, salute, liberazione dallo sfruttamento e dal lavoro salariato, ecc…) sono distanti anni luce da quelli delle classi dirigenti degli Stati-nazione (capitalisti e non), impegnate a sgomitare e farsi la guerra per l’accaparramento delle risorse strategiche del pianeta. Ceti che mostrano, ancora una volta, di interessarsi esclusivamente al loro tornaconto politico, economico e strategico-militare, non certo a quello dei popoli.

“Guernica”, dipinto di Pablo Picasso che descrive la brutalità della guerra

In questo intricato scenario dove a dettar legge sono gli enormi interessi economici e strategici degli Stati, in cui la realtà viene piegata e distorta dai mezzi di informazione “mainstream” per favorire le versioni di chi detiene il potere, appare sempre più utile comprendere certe dinamiche. Fare controinformazione adottando il punto di vista di chi il potere non ce l’ha, di chi è oppresso, come il popolo palestinese, risulta poi di fondamentale importanza.

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